Dritta al cuore con la forza del colore

Innanzitutto mi presento per chi non mi conosce, mi chiamo Marta e ho 18 anni.

Detto ciò l’intento iniziale di questa sera era di raccontarvi una storia, ma scervellandomi tutt’oggi per capire cosa scrivere mi sono accorta di non essere proprio una gran scrittrice perciò utilizzerò l’unica maniera per comunicare che conosco: il disegno (che poi è quello che facciamo da due giorni). Dunque inizierei con un velo di azzurro acceso a coprire quasi tutta la tela, nella parte rimanente un’infinità di rosso mattone deciso a creare un parallelo tra il sopra e il sotto dato dall’accostamento dei due colori complementari, poi aggiungiamo qualche spruzzo di verde qua e là e, per finire, due/tre tocchi di bianco tra l’azzurro del cielo. Et voilà, ecco cosa ci si è parato davanti negli ultimi giorni a Miandrarivo. Uno spettacolo di semplicità che ha lasciato tutti stupefatti. Oggi, purtroppo, abbiamo dovuto lasciare tutto questo e tornare a Tsironomandidy, e posso dire che molti di noi hanno decisamente lasciato il cuore in quelle stradine rosse e nelle aule della scuola di paolo brulicanti di bambini delle più varie età. Sorrisi, sguardi, mani, saluti e credo che gli occhi brillanti di quei bambini mi rimarranno per sempre scolpiti nella mente, tant’è che continuano a frullarmi in testa in loop. Sfido chiunque a rimanere impassibile davanti a quei visini sdentati che ti corrono dietro sorridendo e salutandoti in un po’ tutte le lingue che conoscono, oppure gli sguardi penetranti difficili da decifrare degli anziani con gli occhi meno lucidi ma comunque pieni di vita. Ecco, è questa la parola: vita. In condizioni impensabili da noi non c’è nessuno che abbia visto non pieno di vita. Gli si leggeva proprio negli occhi, quella felicità quasi incomprensibile e addirittura invidiabile.

Marta

In punta di piedi nel cuore

Mi sono svegliata molto presto oggi, ho un groviglio di emozioni che non mi lascia dormire. Sono uscita in cortile per assaporare i colori dell’alba. Il sole fa capolino all’orizzonte poco dopo le 6: è nato un nuovo giorno a Miandriarivo, il giorno in cui salutiamo questo meraviglioso posto che in questi giorni ho chiamato casa. Mi sono affezionata fin troppo facilmente a questo luogo e ai suoi abitanti e doverlo lasciare mi apre una voragine dentro.

Ho voluto percorrere a piedi un’ultima volta il tragitto dalla casa alla scuola per poter salutare i bambini e le bambine che in questi giorni ci hanno fatto compagnia seguendoci ovunque.

Lascio questo villaggio con la consapevolezza di aver lasciato un piccolo segno del mio passaggio, un pezzo di me, una piccola testimonianza all’interno di un grande progetto che spero aiuterà queste persone a crescere. Sicuramente però è più profondo il segno che Miandriarivo e i suoi abitanti hanno lasciato dentro di me.

Mentre saluto un’ultima volta le bambine dal finestrino so che non potrò dimenticare i giorni passati qui. Ricorderò sempre la gentilezza, l’esempio e la simpatia delle suore che ci hanno coccolato e sono state come mamme per noi. Non potrò mai dimenticare gli sguardi, i sorrisi, i saluti e la disponibilità delle persone e nemmeno la sensazione delle manine dei bambini che si intrufolano all’improvviso nella mia per farsela stringere, avrò impresso per sempre il suono delle loro voci che mi chiamano per nome.

Il Madagascar è entrato in punta di piedi nel mio cuore e se ne è portato via un pezzo. Non sono ancora pronta a lasciare questo luogo, ma sento che non si tratta di un addio, ma di un arrivederci.

ANGELA

Qui siamo a casa

È ormai tanti giorni che abbiamo i piedi immersi in questa terra rossa ed è incredibile quanto questa polvere ti entri dentro.

Quando si è da tanto tempo lontani da casa, si inizia a chiamare casa, quasi involontariamente, il posto che ti accoglie.

E qui a Miandrarivo  è proprio così, siamo a casa.

Le suore del Magnificat ci hanno accolto come dei nipoti che tornano a casa dopo tanto tempo.

Hanno atteso il nostro arrivo con un sorriso indescrivibile, un sorriso che ci accompagna giorno dopo giorno.

Si sono sacrificate, hanno stravolto la loro vita per qualche giorno e si sono strette per lasciarci tutto lo spazio di cui abbiamo bisogno.

Il loro carisma, il loro essere sempre felici, la loro energia ha contagiato anche noi.

Le giornate qui volano, tra una canzone e l’altra, tra un bans e una battuta e tutto è più piacevole.

Sembra quasi un posto magico, anzi probabilmente lo è.

Si, si sta talmente tanto ben qui che ogni tanto avverto già la malinconia che mi travolgerà una volta tornata in Italia, quel mal d’Africa di cui tanto si parla e che mi sembrava così sciocco prima di partire.

E invece è proprio così, il Madagascar mi ha stretto forte il cuore strappandomene un pezzettino, un po’ di Carlotta rimane qui, a casa, a Miandrarivo.

In malgascio casa si dice trano.

Le case qui sono completamente diverse dall’idea di casa che abbiamo noi.

Non si sta mai in casa, la vita è fuori, in strada.

Ci si rifugia tra le proprie mura solo la sera per riposarsi.

Oggi abbiamo assaporato la vita cruda e semplice di chi vi abita.

Spesso si ha solo una stanza, dove si cucina, si mangia e si dorme.

Entrando siamo stati travolti dal fumo del fuoco, così denso che tenere gli occhi aperti sembrava quasi una sfida impossibile.

Hanno accolto noi, i vazaha venuti da lontano con un ospitalità, una gentilezza e una spontaneità che mettevano i brividi.

Erano felici, contenti di averci li pur non conoscendoci pur non avendo niente, erano felici, felici.

Ho riflettuto molto su questa parola, felicità.

Pensiamo sempre che la felicità siano delle circostanze favorevoli.

Una persona è felice quando la vita gli gira nel verso giusto.

Ama non è così, qui ho capito che una persona è felice quando non si sente sbagliata.

Quando sente che la propria vita è significativa.

Quando tu trovi un significato allora sei felice.

Non importa se tutto ti è contro, se tutto è faticoso ma se capisci che anche quella sofferenza che stai vivendo è significativa allora sei felice.

È questa la felicità che cerchiamo, la felicità di avere un senso.

Io qua ho trovato il mio senso.

La felicità Carlotta 0

Una prima volta per tutto

Oggi io, Jack Senior ed Angela ci siamo svegliati alle 5.30 per andare al campo da basket a vedere l’alba. È incredibile come qui l’alba sia l’opposto del tramonto: ieri sera infatti ero nel cortile della scuola di Paolo ad osservare il tramonto, il sole ancora non aveva toccato l’orizzonte quando ho deciso di spostarmi nella stradina rossa che porta alla casa delle suore per fare qualche foto con gli zebù che ritornano al villaggio dopo una giornata di lavoro. Il tempo di spostarmi dalla scuola alla stradina che il sole era già tramontato, proprio come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Questa mattina invece il sole ci ha messo ben 45 minuti per sorgere. Verso le 5.40 il cielo aveva preso un bellissimo colore rosso, che si sposava perfettamente col colore del terreno, ma il sole si è fatto vedere solo alle 6.15 per sorgere del tutto solo alle 6.30 circa.

Mentre eravamo seduti a contemplare l’alba riuscivamo ad udire canti belli carichi, accompagnati da tamburi e flauti intagliati nel bambù. Erano due famiglie che celebravano il funerale di un loro parente, in modo simile ad una Famadihana: una festa che dura all’incirca una settimana, giorno e notte, dove viene riesumata la salma di un parente defunto, lo si pulisce cambiando le bende e si festeggia ballando, mangiando e bevendo in famiglia. La morte nella vita di un malgascio è molto presente, fa parte della quotidianità, e la popolazione ne è a conoscenza, soprattutto del fatto che la vita terrena sia solo di passaggio. La vita eterna la si raggiunge solo dopo la morte, così la famiglia festeggia e glorifica il fatto che il parente sia passato alla vita eterna. Secondo la cultura malgascia, morendo si diventa un antenato, un Razana, e quando qualcuno è portato a compiere scelte molto importanti si reca nella tomba del Razana a pregarlo.

Dopo colazione siamo partiti per la scuola di Paolo, il programma di questa mattina era di continuare il lavoro dei murales. Nel tragitto siamo passati di fianco alla casa della famiglia che festeggia, non appena siamo stati notati ci hanno fatto cenno di unirci alla festa. Inutile dire che non avevo mai ballato affianco ad una bara aperta, ma c’è una prima volta per tutto.

Il lavoro dei murales è stato abbastanza faticoso, già non sono un gran pittore, in più essere accerchiati da bambini, ragazzi e adulti del paese che incuriositi osservavano il lavoro di questi Vazaha, a volte metteva a disagio; per fortuna che c’erano gli scout malgasci a distrarre i bambini con giochi e bans. Finiti i murales sono stato attaccato da un gruppo di bambine, che quasi facevano a botte per salirmi in braccio. Alla fine ho preso una bambina scalza e l’ho accompagnata al campo da basket dato che faceva fatica a camminare a causa delle infinite spine che le si infilavano nei piedi. Quando l’ho presa su la sua amica, che era affianco a me, ha iniziato a toglierle le spine. Lì per lì rimasi incredulo, non è una scena che si vede tutti i giorni. Subito dopo queste due bambine, vedendo la mia faccia, le mani e le braccia sporche di vernice hanno iniziato a grattarmi il colore dalla pelle, cercando di pulirmi. Sono rimasto colpito dalla dedizione che queste bambine mettevano nel “lavarmi”, nonostante fossero decisamente più sporche di me.

La sera, essendo l’ultima a Miandrarivo, abbiamo festeggiato con le suore e gli scout malgasci. Alla fine non abbiamo avuto troppi problemi di comunicazioni con gli scout. Anche perché, come già hanno detto alcuni, lo scoutismo è un linguaggio universale.

JACKINO

Camminando insieme

Salama babbo, dopo quello che abbiamo fatto oggi morirai d’invidia, visto che oggi abbiamo fatto alcune delle cose che mi dici di voler vedere fin da piccolo.

Oggi siamo andati a fare un giro lungo il fiume per vedere prima una distilleria di rum… fantastica! Era formata da due bidoni neri. Nel primo si faceva fermentare la canna da zucchero, il secondo con una vasca di legno piena di acqua fredda per fare condensare il vapore. Così si ottiene l’agognata bevanda. Cosa non fa l’uomo pur di bere (cit. padre Luca)! In seguito siamo andati a vedere i cercatori d’oro all’opera con il loro piattone concavo. Purtroppo niente da fare: non l’hanno trovato. Però ci hanno fatto vedere in una ciotolina l’oro che avevano trovato in precedenza e c’era una polverina finissima che in seguito. Nel percorso di ritorno ci sembrava di vederla nell’ acqua.

Al pomeriggio ho arbitrato la partita di basket femminile tra le nostre “vazaha” e le suore. Una partita finita al quarto tempo con l’emozionante risultato di diciannove a sedici (ovviamente per le suore).

La cosa che ci ha colpito di più oggi è la massa di gente che si forma quando siamo in strada o fermi da qualche parte. Una folla i cui membri andavano dal più piccolo dei bambini al più anziano del villaggio, tutti incuriositi di ciò che facevamo. Noi non siamo più importanti di loro solo perché veniamo da molto lontano, ma abbiano compreso che noi e loro siamo uguali su tutti gli aspetti e tutte le attività che abbiamo svolto in questi giorni sono state un modo di comunicare uguaglianza e fraternità. Siamo venuti per collaborare, non per essere serviti! Vogliamo fare questo percorso camminando insieme come abbiamo fatto con i bambini in questi giorni tornando a casa. Perché solo lavorando insieme l’impossibile diventa possibile.

Roberto

Terra che sanguina

Eccomi qui, salve a tutti! Per chi non mi conosce sono Hakim, ho 22 anni e sono originario del Burkina Faso. All’età di sei anni mi sono trasferito in Italia dove ho vissuto circa 15 anni ed ora mi sono trasferito con la mia famiglia in Inghilterra dove studio e lavoro. Essendomi trasferito da piccolo e non essendo mai tornato nel mio paese originario, l’esperienza che ho fatto in Tanzania due anni fa e questa in Madagascar sono cose nuove anche per me, come se fosse la prima volta che vedo la mia terra nativa.

Ora parlo un po’ di come sto vivendo l’esperienza qui in Madagascar: prima di partire pensavo che sarebbe stato come l’esperienza vissuta in Tanzania, perciò non mi aspettavo niente di nuovo, ma in realtà è tutt’altra cosa.

Appena atterrati mi sono riaffiorati i pensieri e le emozioni che ho provato in Tanzania, ma non sentivo quella sensazione del sentirmi a casa, ma poco importava perché era semplicemente il primo giorno e ne avevo davanti a me molti altri.

Dopo l’esperienza della foresta nella prima settimana siamo partiti per il villaggio di Miandrarivo dove siamo stati accolti dalle suore con un pranzo tipico malgascio: riso, zebù, verdure e tanta frutta.

Durante il viaggio ho guardato molto fuori dal finestrino del pullmino e mi è saltato subito all’occhio il vuoto: distese di nulla, ma non in un piccolo spazio… Immaginatevi ettari e ettari di letteralmente nulla: campi dorati dove, per coltivare, prima le persone bruciano l’erbaccia e zappano la terra. Ogni tanto si intravedono piccoli spiazzi con alberi verdissimi perché sono riusciti a resistere ai vari incendi. Una cosa che mi ha colpito molto sono stati i vari crateri derivati dalle erosioni della pioggia in alcune parti della terra. siccome essa è rossa è come se fosse ferita e stesse sanguinando.

Per ora sono felice, il gruppo è molto unito e disponibile. I giorni cominciano ad essere molto più veloci e prima o poi tutto questo finirà, ma sono sicuro che dentro a ognuno di noi rimarrà qualcosa.

-I think that I saw you cry-

-Why all good things come to an end-

Hakim Dene, fo6

Fraternità internazionale

I nostri giorni nel villaggio di Tsironomandidy stanno terminando, questa mattina abbiamo visitato una casa famiglia di bambini con diverse disabilità. Inizialmente ci ha accolto Madelaine, successivamente le maestre e i bimbi della struttura “arc en ciel ” ci hanno aperto le porte della loro casa, preparando per noi uno spettacolo.

È bello sentirsi parte di una realtà così lontana da noi per distanza e per differenza di cultura, ma che con il calore delle persone diventa così vicina che sembra quasi come se ti appartenesse.

Sempre sullo spirito del sentirsi parte di qualcosa, oggi per la prima volta ho vissuto sulla mia pelle un’esperienza di scoutismo internazionale. Gli scout delle quattro parrocchie del villaggio si sono riuniti in cattedrale per accoglierci, abbiamo condiviso insieme un pomeriggio di attività. È stato emozionante sentire come la semplicità di un fazzolettone, la voglia e la curiosità di stare insieme, il credere nello stesso Dio ci ha trasformati in un momento in un unico grade gruppo, nella grande famiglia degli scout.

Improvvisamente il vazaha che questo piccolo paesino guardava con curiosità ma timore è diventato uno di loro, un amico, perché lo scoutismo è questo, fratellanza. Tutti uniti in un unico cerchio che occupava tutto il piazzale di fronte alla cattedrale quello che trasudava dai nostri visi era solo felicità, è un orgoglio essere scout e sapere che dall’altra parte del mondo c’è qualcuno che condivide i tuoi stessi ideali.

Costanza

Il significato di un intreccio

Abbiamo passato la giornata accolti dalla meravigliosa comunità delle suore del magnificat di Tsironomandidy, che vivono in un angolo nascosto della città pieno di gioia e spensieratezza. Arrivati ci è stato chiesto di celebrare con loro la messa della giornata; i loro canti rimangono per me un’esperienza mistica di questo viaggio, qualcosa di indescrivibile. Ti cullano con le loro voci, il mio corpo puntualmente si ferma mentre li ascolto, chiudo gli occhi, mi faccio avvolgere da quella melodia che mi riempie il cuore, tutto diventa sereno attorno a me, provo un senso di pace.

Tutti insieme ci siamo dedicati poi al lavaggio di panni e capelli, un momento di vera comunità. L’odore di sapone di marsiglia si sprigiona per tutto il giardino, l’acqua scorre lungo i fossetti e irriga le piante, le chiacchiere attorno ai lavatoi, i sorrisi. Tutto è vero, ogni istante di questa mattinata è il dipinto di una comunità che sta crescendo che assomiglia quasi ad una famiglia, mi sento in una seconda casa.

Poi il pranzo; le suore di questa comunità non sono come tutte le altre che ho incontrato nella mia vita. Ci hanno mostrato la gioia di essere fratelli a distanza di chilomentri. Terminato il pranzo inizia la musica, loro si alzano ed iniziano a ballare, alcuni di noi si uniscono e nel giro di qualche secondo tutti quanti ci ritroviamo a danzare seguendo maldestramente i passi di queste meravigliose donne, tutti con il sorriso in volto, tutti spensierati, come bambini.

Nel pomeriggio alcune di noi decidono di fare le trecce, forse perché quest’aria malgascia ci è un po’ entrata dentro ed è come se volessimo dire “eccoci, guardate, siamo un po’ come voi ora!”. Come se volessimo mostrare che questo viaggio che ci sta riempiendo dentro ha bisogno già di essere testimoniato, come se questi intrecci ci dessero la conferma che il cambiamento che stavamo cercando forse è già in atto e non ce ne siamo ancora resi conto.

Virginia

Capitolo 2

‘’E poi non sapevo più cosa guardare, e guardai il cielo’’ Italo Calvino

Un cielo trapuntato di nuvole ci ha fatto compagnia per tutto il viaggio, il lungo viaggio da Andasibe a Tisoranomandidy.
Abituati come siamo ad accorciare le distanze, ottimizzare i minuti e ridurre gli sprechi di tempo, percorrere meno di quattrocento chilometri in dieci ore è un’esperienza che solo armati di santa pazienza si riesce ad affrontare. Ma è solo se usciamo dai nostri ‘’binari’’, se rinunciamo alla presunta produttività del tempo, che possiamo riappropriarci della capacità di vedere, di ascoltare, di pensare, che riusciamo a riappropriarci della lentezza.
Il tempo malgascio è diverso dal nostro tempo. La strada ce lo insegna.
La strada malgascia brulica di vita, è una piazza, è il cuore della vita della comunità, è lo specchio del mondo.

La testa schiacciata contro il finestrino, in sottofondo una radio malgascia da cui escono canzoni piene di suoni misteriosi e parole arcane, quasi magiche e i nostri occhi a cui la strada offre dei quadri viventi.

Le donne malgasce sono la forza di questo popolo. Con le spalle avvolte nei loro scialle colorati, i bambini per mano o in braccio e cesti di vimini sulla testa, riempiono le strade, sono l’essenza stessa della strada. Ci sono le donne intente a lavare i panni nei torrenti, che muovono le braccia al ritmo della loro voce; ci sono quelle sedute dietro a banchetti nei quali vendono frutta, verdura o le più svariate merci; ci sono quelle affacciate alle porte delle case, che ci sorridono al passaggio.
Tutte accomunate dallo sguardo intenso, dolce e deciso che solo una donna può avere. Uno sguardo incorniciato dai solchi dovuti alla fatica di occuparsi della famiglia, al lavoro nei campi, dovuti al sole e all’aria secca.

Ci sono i bambini: decine, centinaia di bambini che corrono, saltano. Bambini che escono dalle scuole fieri dei loro grembiuli. Bambini che giocano con qualsiasi cosa gli si pari davanti. Bambini che corrono dietro al pulmino, ridendo del ‘’vazaha’’ (lo straniero).

C’è il traffico. I camion, le macchine, le Renault Diana beige trasformate in taxi, i carri trainati dagli zebù, i carretti pieni dei più svariati materiali tirati da ragazzi, i taxi-brousse colmi all’inverosimile di persone.

Ci sono gli odori. Acri, dolci, pungenti. Odore di terra bruciata. Odore di mattoni appena cotti. L’odore della nafta delle motozappe. Odori talmente intensi che si possono toccare.

Ci sono i panorami. La terra rossa brulla, le montagne spoglie, con pochi esemplari di alberi che attendono, vigilano dall’alto delle loro chiome. C’è la vertigine che ti investe quando non riesci a trovare l’orizzonte, quando mancano i punti di riferimento, quando ti senti smarrito davanti al tutto.

La strada ci offre questo.
La lentezza ce lo fa assaporare.

Un cielo trapuntato di nuvole, trafitto da coni di luce, ci ha fatto compagnia per tutto il viaggio.

GABRIELE

Un giorno di terra

“Se ti tagliassero a pezzetti

il vento li raccoglierebbe,

il regno dei ragni cucirebbe la pelle,

e la luna tesserebbe i capelli e il viso,

e il polline di Dio, di Dio il sorriso”.

Mi vengono in mente le parole di questa canzone di De Andrè mentre sono seduto in mezzo ad un campo durante il deserto. La canzone parla della libertà, di come niente possa distruggerla perché viene continuamente riassemblata, ricostruita dalla natura, fino a quando Dio le restituisce il sorriso, la vita.

Mi viene in mente perché ognuno di noi sta costruendo con terra e acqua il proprio se stesso: per farlo dobbiamo immergere le mani nel fango rosso e plasmare la terra, nello stesso modo in cui Dio ha raccolto la sabbia prima di soffiare la vita al suo interno.

In mezzo alla Natura è semplice percepire che è dalla Terra che nasce la vita. Qua abbiamo la possibilità di vivere con pienezza e verità il contatto con la Terra, che a casa abbiamo quasi del tutto perso, abituati come siamo alla città e al cemento.

Abbiamo piantato gli alberi nella parte di foresta che non esiste più. Le piccole piante che ora sono alte solo qualche centimetro tra qualche anno saranno alberi. Oggi, per la foresta, non siamo stati altro che il soffio che restituisce la vita. Ho sentito che Dio ha agito attraverso le nostre mani per ridonare alla foresta i fratelli che aveva perso.

Come la libertà, la Vita vince: noi siamo solo un piccolo contributo per la rivincita della Terra.

GIACOMO C.